Sempre attuale la “lezione” di Leonardo Sciascia

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Il carabiniere Renato Candida scrisse “Questa mafia” che ispirò Leonardo Sciascia per il suo capitano Bellodi protagonista de “Il giorno della civetta”. Dopo oltre cinquant’anni questo libro verrà ripubblicato e quel testo, accompagnato a quello di Sciascia, nonostante il tempo trascorso, e le mutazioni, ci dice ancora molto

di Valter Vecellio

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Pubblicato ormai più di cinquant’anni fa, Questa mafia, scritto da un carabiniere (l’allora capitano Renato Candida che tanto, troppo, aveva capito della “Cosa Nostra”), è un libro che attira l’attenzione di un giovane ma già vigile Leonardo Sciascia. Ne scrive una recensione con toni di entusiasmo, e ne nasce un’amicizia che dura nel tempo. Candida sarà anche il modello di carabiniere a cui Sciascia si ispira per il suo capitano Bellodi, protagonista de Il giorno della civetta.

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Va detto che Candida, una volta pubblicato il libro, ne riceve, dopo qualche tempo, un ringraziamento: sotto forma di trasferito, alla scuola allievi ufficiali di Torino. Promosso, e rimosso. Si può dire, con il senno di oggi, che gli sia andata perfino bene. In quegli anni così s’usava. Poi altre, più drastiche e sanguinose misure vengono prese: prima la “chiacchiera”; poi il rimprovero d’essere “chiacchierato”. Infine la mortale carica di tritolo o la raffica di kalashnikov.

La Cosa Nostra certo ha enormemente mutato i suoi connotati, da quegli anni ormai lontani; è ormai altra cosa, da quello che hanno scritto Candida e Sciascia. Non solo è salita molto a Nord, la mafiosa palma; è diventata una ormai inestricabile foresta; e tanto più insinuante e pericolosa in quanto silenziosa, discreta. Non se ne parla più, non si mostra più. Segno, evidentemente, che non ha più bisogno di parlare, di mostrarsi. Con quel che ne consegue.

Leonardo Sciasciia
Leonardo Sciasciia

Questa mafia, che ormai si poteva reperire con fortuna nel circuito delle librerie antiquarie, a giorni verrà meritoriamente ripubblicato; e ne avremo così, se non un documento di attualità, un documento di storia: sempre utile, perché la conoscenza di “ieri” aiuta a comprendere e spiega “l’oggi”. E’ rieditato dallo stesso editore di allora, quel Salvatore Sciascia di Caltanissetta, omonimo di Leonardo; e di quest’ultimo ha un testo introduttivo.

Invitato a presentarlo a Torino, dove ancora vive e risiede una delle figlie del generale, se così posso dire, mi sono “preparato”. E’ vero: è una mafia contadina, agricola, quella che viene descritta (ben descritta; e fin troppo: per aver mostrato intelligenza e volontà di combatterla, e aver dato prova che aveva compreso cosa c’è a fianco delle cosche, a supporto e complice, Candida si trova trasferito). Quel testo, accompagnato a Il giorno della civetta, nonostante il tempo trascorso, e le mutazioni, ci può ancora dire molto.

 Ve la ricordate certamente la classificazione del genere umano elaborata da Mariano Arena, il mafioso protagonista del romanzo?: “Uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianc…, quaquaraquà…”. Quante  volte l’abbiamo sentita, e ripetuta noi stessi… E chi non ricorda la scena del film di Damiano Damiani, con il bravissimo Lee J.Cobb che fronteggia Franco Nero, venuto ad arrestarlo…

Nel film quel “piglianc…” diventa “ruffiani“, per non incorrere nei fulmini della censura, anche quello accade in quegli anni… Ma quella pagina, in entrambe le versioni, è un classico”. Grazie a quel libro – e a quel film – molti italiani prendono consapevolezza che esiste un qualcosa, una organizzazione criminale ramificata e antica, che si chiama mafia, e che i suoi adepti chiamano “La cosa nostra”. Sciascia si ispira, tra l’altro, a un episodio realmente accaduto, il delitto di Accursio Miraglia, un sindacalista ucciso dalla mafia nel gennaio del 1947. E un giorno converrà fare una storia dei sindacalisti morti ammazzati in Sicilia dalla mafia: tanti; e pochissimo ricordati.

Il giorno della civetta
Il giorno della civetta

S’è parlato, prima, di una pagina diciamo così di “colore”; suggestiva, ma non è quella che conta. La pagina davvero importante è quella che viene prima. Bellodi sente che il mafioso – anche grazie alle protezioni politiche di cui gode a Roma – gli sta per sfuggire dalle mani. Lo capisce, e pensa a Cesare Mori, il “prefetto di ferro” che Mussolini manda in Sicilia, e che stronca il brigantaggio; quando poi Mori comincia a pestare i piedi alla mafia, che è già entrata nel regime, il prefetto viene nominato senatore; anche lui rimosso, come anni dopo Candida. I metodi di Mori sono brutali, all’insegna del “fine giustifica i mezzi”, al di là e al di sopra delle leggi, che per quanto fasciste, qualche garanzia pure la danno.

Fare come Mori, pensa per un attimo Bellodi. Tentazione che scaccia subito: no, si dice, bisogna stare nella legge. Piuttosto, quello che serve è indagare sui patrimoni, mettere la Finanza, mani esperte, come hanno fatto in America con Al Capone, a frugare sulle contabilità, e non solo dei mafiosi come Mariano Arena: annusare le illecite ricchezze degli amministratori pubblici, il loro tenore di vita, quello delle loro mogli e delle loro amanti, censire le proprietà e comparare il tutto con gli stipendi ufficiali; e poi come dice Sciascia, “tirarne il giusto senso“.

Quello che anni dopo fanno Beppe Montana, Ninì Cassarà, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: che cercano di “tirare il giusto senso” appunto indagando sulle tracce lasciate dal denaro, che non puzza, ma una scia la lascia sempre, a saperla e volerla trovare.

Damiano Damiani
Damiano Damiani

Tirare il giusto senso“, significa anche Anagrafe Patrimoniale degli Eletti; significa che ministri, parlamentari, amministratori pubblici devono vivere come in una casa di vetro, e devono rendere conto del loro operato agli elettori, che devono essere messi nella condizione di sapere. Se quei suggerimenti fossero stati accolti, probabilmente molte cronache giudiziarie, di ieri e oggi, ce le saremmo risparmiate.

L’altra pagina importante e amarissima è l’ultima. Bellodi è tornato a Parma, c’è una festa, e si racconta una storia: quella di un medico del carcere che si mette in testa di cacciare i mafiosi sani dall’infermeria e ricoverarvi i detenuti malati. Il medico una notte è vittima di un’aggressione, un pestaggio all’interno del carcere. Nessuno lo aiuta, tutti gli dicono che è meglio lasciar perdere. Il medico è un comunista, si rivolge al partito. Anche il partito gli dice di lasciar perdere. Il medico allora si rivolge al capomafia, e gli aggressori vengono puniti. Aneddoto amarissimo, e non ne sfuggirà il senso, il significato. E dire che qualcuno, anni fa, non ha avuto scrupolo e pudore di rivelare la sua integrale imbecillità sostenendo che Il giorno della civetta è un romanzo che fa l’apologia della mafia…

La Voce di New York 20 ottobre

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